Un paio di argomenti morali per la secessione

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Fonte,

http://www.lindipendenza.com/secessione-morale-miglio-trentin/

di ENZO TRENTIN

Gianfranco Miglio scrisse che il «diritto di secedere» e il «diritto di resistenza» («diritto di insorgere») sono le due essenziali facoltà prepolitiche su cui si fondano tutti i sistemi istituzionali. In quanto tali, anche se non si trovano esplicitamente menzionati nella maggior parte delle Costituzioni, rappresentano il punto da cui partono e il punto a cui ritornano le aggregazioni politiche di ogni tempo e di ogni luogo. Queste due regole si trovano infatti a monte di ogni processo costituente, ed è per la loro efficacia che si crea, o si dissolve, una sintesi politica. (1)

Se non si riconosce il diritto degli uomini liberi ad affrancarsi da un ordinamento tirannico non altrimenti modificabile («resistenza»), o a separarsi da una comunione politica che non è più conveniente («secessione» come «diritto di stare con chi si vuole»), tutte le costruzioni istituzionali esistenti sarebbero inefficaci per un vizio di legittimità insanabile. Sul «diritto di insorgere» esiste da molto tempo una letteratura vastissima. Non è così per il «diritto di secedere».

Certamente il nostro interesse per il tema dipende dai numerosi e recentissimi casi in cui un popolo è stato costretto a chiedere e ottenere la «secessione» da una più ampia comunità di cui faceva parte: mai l’appello al diritto di separarsi è stato frequente e convincente come ai nostri giorni.       L’argomentazione è particolarmente persuasiva là dove si considera il caso delle etnie – quelle dei fiamminghi, sloveni, canadesi francofoni, ecc. – che lamentano di dover sopportare un carico contributivo proporzionalmente eccessivo verso il resto della comunità in cui si trovano inserite, e quindi chiedono (o hanno già ottenuto) di «secedere». L’analogia con le circostanze in cui si trovano le regioni dell’Italia settentrionale (veneti e lombardi in primis) è evidente.

Ma forse l’importanza maggiore sta nell’istituto della «secessione» come «mezzo ultimo», o «risorsa estrema», a cui possono ricorrere quei popoli i quali lottano per veder riconosciuti i propri diritti. In tal modo non solo vengono rivalutati tutti i sistemi «federali» (che si collocano al di qua del traguardo «secessione», e possono essere utilizzati per tutelare quei diritti), ma si propone anche l’interpretazione «moderna» del «federalismo»: non più come (in passato) mezzo transitorio per raggiungere l’unità, bensì come assetto stabile per riconoscere, tutelare e gestire le diversità. La presenza di un ben fondato «diritto di secessione», nel corpo aggiornato del diritto pubblico e della morale politica generale, diventa – in altre parole – garanzia di stabilità e di non reversibilità di tutte le Costituzioni federali del nostro tempo. Il diritto alla «diversità» e al «pluralismo» nelle istituzioni (anche se costa sacrifici) non può più essere negato, senza innescare il ricorso al rimedio ultimo, cioè alla «secessione».

Vi sono varie considerazioni che, complessivamente considerate, costituiscono un valido supporto per un diritto morale a secedere sotto determinate circostanze. Tra gli argomenti più convincenti a favore del diritto alla secessione figurano quello fondato sulla giustizia rettificatoria e quello basato sulla ridistribuzione discriminatoria.

In merito alla  giustizia rettificatoria, qualcuno potrebbe opporsi con la forza alla secessione affronta a viso aperto, negando la liceità della secessione anche nei casi in cui i secessionisti lamentino che il proprio territorio sia stato annesso illegittimamente. È questo il caso di alcuni gruppi di indipendentisti veneti. Si veda in proposito il mancato rispetto degli accordi internazionali intercorsi, ed il conseguente plebiscito truffa del 1866. Vi sono due versioni dell’argomento, ed entrambe sostengono che un presunto diritto alla secessione sia annullato da un ricorso all’argomento delle aspettative legittime che andrebbero deluse in caso di secessione.

Per illustrare la prima versione sarà utile un esempio concreto. Supponiamo che i veneti ritengano di avere un diritto morale ed extracostituzionale a secedere, dal momento che il loro paese fu forzatamente e ingiustamente annesso dall’Italia nel 1866. Gli antisecessionisti possono obiettare, a questo riguardo, che non possono essere tenuti in ostaggio dalla storia. La realtà delle cose è che il Veneto fa parte dell’Italia da 147 anni. Durante questo periodo sono sorte delle aspettative ragionevoli. Molte persone, tra le quali cittadini italiani non veneti che non presero parte all’ingiustizia originaria, hanno edificato le proprie vite secondo queste aspettative. Permettere la secessione distruggerebbe le aspettative, e quindi i piani di vita di tante persone innocenti. Questa prima variante può essere chiamata l’argomento semplice basato sulle aspettative.

Chi avanza questo argomento ammette che i secessionisti, il cui territorio fu ingiustamente annesso, abbiano diritto a secedere, ma afferma anche che questo diritto è superato dal peso morale delle legittime aspettative degli altri, che non presero parte all’ingiustizia. In ogni caso il problema è il seguente: cosa si deve intendere per aspettativa legittima? E quando tale aspettativa ha sufficiente peso morale da annullare una valida rivendicazione di diritto?

Ancora una volta sarà utile la speculazione con un semplice caso. Il fatto che qualcuno goda dei beni sottratti illegalmente a un’altra persona e nutra aspettative nei loro confronti (pur senza essere l’autore del furto), sicuramente non fa sì che venga meno il diritto della persona a cui i beni sono stati sottratti. Per quale motivo le cose dovrebbero andare diversamente nel caso di furti perpetrati da gruppi o da Stati? Il difetto dell’argomento è quello di non riuscire ad articolare una nozione di aspettativa legittima abbastanza forte da sconfiggere l’asserzione di un diritto a secedere basato su considerazioni di giustizia rettificatoria.

Esiste anche l’argomentazione che viene definita ridistribuzione discriminatoria del gettito fiscale. Ovvero quella che governi italiani impongono, da decine e decine di anni, con una tassazione persecutoria per le regioni del nord Italia, alle quali ristornano meno fondi,  applicando per sovramercato particolari restrizioni economiche senza addurre valide giustificazioni morali per tale trattamento. Le accuse di ridistribuzione discriminatoria si sprecano nei movimenti secessionisti lombardo-veneti. Sarebbe davvero difficile trovare casi in cui questa accusa non svolge un ruolo centrale tra le giustificazioni invocate per la secessione, ancorché molto spesso nascosta dall’eccitante ma confusa propaganda per il «diritto all’autodeterminazione».

Il governo centrale sino ad ora non ha adottato politiche fiscali o normative eque, ovvero programmi economici che operino sistematicamente a vantaggio di tutti i gruppi, come vorrebbe il dettato dell’Art. 3 della Costituzione:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.»

Al contrario una tassazione persecutoria al nord, ed un “lassismo” al sud, rendono lo Stato italiano criticabile (usiamo un eufemismo) poiché tale arbitrario comportamento è moralmente condannabile.

Il ricorso a princìpi morali non è prerogativa esclusiva di chi è favorevole alla secessione. Non è sufficiente giustificare la necessità di sottrarsi a una ridistribuzione discriminatoria (è il caso del Veneti, ma anche dei Lombardi) se non si indica precisamente ed a priori quale sarà il nuovo assetto economico-contributivo. È indispensabile dimostrare che un gruppo può lecitamente opporsi allo Stato anche con la forza qualora si trovi a essere vittima di una ridistribuzione discriminatoria – ossia, qualora le politiche economiche o fiscali dello Stato operino sistematicamente a detrimento di quel gruppo e a beneficio di altri, senza che questo medesimo Stato abbia una valida giustificazione morale per questa difformità di trattamento. A maggior ragione il gruppo o il territorio è legittimato a secedere quando ciò risulti necessario alla tutela della sua particolare cultura o forma di vita comunitaria.

A questo punto s’impone più che mai un progetto di nuova architettura istituzionale, nel quale ognuno possa identificare le proprie aspettative e risulti libero di scegliere secondo le proprie legittime aspirazioni. Non si può, infatti, seguire i molti “menestrelli politici” che vagheggiano questo o quel vantaggio per un Veneto indipendente – ma ciò vale anche per ogni altra area a vocazione indipendentista dall’Italia – poiché troppe volte la storia ha fornito programmi o manifesti politici che sono stati puntualmente disattesi subito dopo la presa del potere da parte del gruppo politico che pretendeva di governare il “nuovo”.

Paolo Bonacchi, nel suo nuovo libro di imminente pubblicazione, scrive: «l’idea di regolare i rapporti fra individui su base contrattuale (su convenzioni nelle società animali) non è mia, non appartiene neanche a Proudhon che la descrive magnificamente nel capitolo VII di “Del principio federativo” (vedi QUI), è una legge di natura, dicono i più importanti sociobiologi del terzo millennio. I rapporti da regolare sono: 1) fra individui; 2) fra individui e governo della comunità [o Stato]; 3) fra comunità o Stati. Se poniamo il contenuto del contratto come legge, letta, discussa approvata e sottoscritta dalla maggioranza dei cittadini responsabili che partecipano volontariamente alle scelte, abbiamo il toccasana per risolvere moltissimi problemi di cui discutiamo qui e che non possono essere diversamente risolti. Oggi le conoscenze e la tecnologia sono completamente diversi rispetto al passato, come diversi sono i problemi. Il contratto, in politica, è sinonimo di federalismo che Bossi e la Lega Nord hanno tradito nella lettera e nello spirito».

Come abbiamo scritto più volte in questo giornale: la democrazia della Repubblica di Venezia (cui gli indipendentisti veneti si rifanno) non ha paragoni se contestualizzata al mondo d’allora. Se è possibile riallacciarsi a quella tradizione e mutuarla ai giorni nostri, sarà anche indispensabile poter produrre una bozza di assetto istituzionale in armonia con una democrazia moderna. E per questo ancora una volta dobbiamo volgere il nostro sguardo al federalismo svizzero che [come ha detto Kaspar Villiger (2)] vive del principio sancito nella Costituzione. È la sussidiarietà verticale istituzionale, dal basso verso l’alto: quello che non può fare il singolo cittadino lo fa il Comune, ciò che non può fare il Comune lo fa il Cantone e quello che non fa il Cantone lo fa la Confederazione. Questo enorme vantaggio svizzero funziona solo se chi decide la spesa è anche colui che decide le imposte. In altre parole, si tratta di ciò che il popolo svizzero accettò a larghissima maggioranza nel 2004 nell’ambito degli articoli costituzionali per la nuova perequazione finanziaria e il nuovo riparto dei compiti tra Confederazione e Cantoni. In una frase: chi comanda paga, chi paga comanda.

NOTE:

(1)  Presentazione al libro: «SECESSIONE – Quando e perché un paese ha il diritto di dividersi» di Allen Buchanan – © 1994 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

(2)   Chi è Kaspar Villiger: http://it.wikipedia.org/wiki/Kaspar_Villiger

I “Discorsi” di Miglio


A Palazzo Giustiniani presentazione degli interventi del grande ideologo, il Professür, raccolti in un volume con introduzione di Claudio Bonvecchio, docente dell’Insubria. Un ritratto imperdibile sul “Mefistofele” della politica

L’appuntamento è per giovedì 24 novembre non proprio a due passi da casa, ma a Roma.
Eppure, diversi varesini sono stati invitati e non mancheranno all’appuntamento fissato alle ore 16.00 a Palazzo Giustiniani, quando il professor Claudio Bonvecchio, presidente del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi dell’Insubria, sarà tra i protagonisti nel corso della presentazione del volume “Gianfranco Miglio. Discorsi Parlamentari”, del quale il professor Bonvecchio ha curato l’introduzione.
Oltre al presidente del Senato, Renato Schifani, sono annunciati l’onorevole Umberto Bossi, il senatore Paolo Franco, e il professor Leo Miglio, figlio del senatore Gianfranco Miglio.

Nel decennale della morte del professor Miglio, avvenuta il 10 agosto del 2001, il volume – pubblicato nella collana del Senato e pubblicato dalla casa editrice Il Mulino di Bologna – raccoglie i discorsi pronunciati da Gianfranco Miglio sia in Senato che in Commissione durante la sua carriera parlamentare, a partire dal 1992, quando entrò, eletto nelle fila della Lega Nord, al Senato della Repubblica.

Nella sua introduzione al volume, il professor Bonvecchio parte dalla citazione di un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, l’1 novembre del 1992, a firma di Gian Antonio Stella, dal titolo “Miglio: macché Andreotti, Belzebù sun mi”.
Nell’incipit titolata «”Il mefistofelico” Miglio», il professor Bonvecchio traccia un ricordo del senatore: «… la stessa fisicità del Professür (come veniva scherzosamente chiamato Miglio, per le sue origini ultra-lombarde) favoriva, in chiave satirica, questo accostamento. La calvizie, il viso segnato, le sopracciglia aggrottate, il sorriso ironico, la battuta caustica, la vis polemica, lo sterminato sapere unito, ad un non certo nascosto disprezzo per la politica: tutto andava nella direzione di tratteggiare un personaggio fuori dal comune. Un personaggio che si prestava, effettivamente, ad essere visto come una sorta di creatura al limite del demoniaco. Tenuto anche conto dell’aplomb compassato e un poco noioso che, per lo più, connotava i parlamentari della Prima Repubblica.Così, frequentemente il nome di Gianfranco Miglio è stato associato – a torto o a ragione – a quello di Mefistofele».

Dai Discorsi si evince tutto il pensiero del Professore: sulla Politica, sulla crisi dello Stato moderno, su “lo stacco tra paese reale e paese politico”, la necessaria modifica della Costituzione italiana e soprattutto sul tema a lui caro del Federalismo, il cui impegno è dimostrato dalla partecipazione del senatore a diverse commissioni parlamentari.

Di Gianfranco Miglio, Bonvecchio non analizza solo i contenuti, ma anche lo stile e il linguaggio dei discorsi, ne sottolinea la “pacatezza”, nonostante la notoria “vis polemica” e lo “humor caustico”, l’atteggiamento rispettoso verso “le Camere rappresentative, per il principio stesso della rappresentanza e per la dignità che deve connotare gli eletti del popolo”.

Il professor Bonvecchio ricostruisce l’esperienza in Senato del professor Miglio così: “Miglio rimarrà nel Senato della Repubblica dal 16 aprile 1992 al 29 maggio 2001, rispettivamente nella XI, XII e XIII Legislatura. Durante la XI Legislatura (23 aprile 1992-14 aprile 1994), Miglio – iscritto al Gruppo Lega Nord – sarà Membro della 1a Commissione permanente (Affari Costituzionali), Membro sostituto del Comitato parlamentare per i procedimenti di accusa e Membro della Commissione parlamentare per le Riforme istituzionali dal 3 maggio 1992 sino alla fine della Legislatura. Nella XII Legislatura (15 aprile 1994-8 maggio 1996) sarà nel Gruppo Lega Nord dal 18 aprile 1994 al 16 maggio 1994 per poi entrare – a causa dei suoi dissapori con la Lega e con Bossi – nel Gruppo Misto dal 16 maggio 1994 all’8 maggio 1996. Parteciperà, come Membro, alla 11° Commissione permanente (Lavoro, previdenza sociale) e alla Commissione parlamentare per le questioni regionali. Nella XIII Legislatura (dal 9 maggio 1996 al 29 maggio 2001) sarà nel Gruppo Misto e come Membro parteciperà – fatta salva una breve interruzione – ai lavori de1a Commissione permanente (Affari Costituzionali) dal 30 maggio 1996 al 21 luglio 1998 e dal 22 luglio 1998 al 29 maggio 2001”.

In tuo ricordo Professore

Dal confine alpino al crinale dell’appennino tosco-emiliano l’Italia transpadana e cispadana ha una sua specifica ragion d’essere, una sua fisionomia economica produttiva storica e perfino linguistica da richiedere, per il suo pieno sviluppo, anche a beneficio dell’intera nazione, una sua posizione esatta e spiccata in seno all’Italia che sta nascendo. L’unità d’Italia non potrà essere fatta che su altre basi […] La Liguria, il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia e le Tre Venezie, ossia tutta l’Italia settentrionale nel suo insieme costituisce un’armonica unità geografica, economica, etnica e spirituale, ben degna di governare se stessa. (da Il Cisalpino, 22 luglio 1945)